È
bello Bomberman, ’sto giochetto che di fatto ha dato
inizio all’arco sferoidale della Hudson Soft, e vedrai che nonostante che è
privo di un impatto visivo particolarmente definitivo il Bomberman vorrà
trascinarsi dalla sua parte il disarmante uso del gameplay giapponese 1990™.
Allora il videogioco si conquistò un tale seguito che persino le software house
che stavano in Europa finirono per
reclamarne conversione formato personal computer, quand’era oltremodo chiaro che
la console non sarebbe mai fuoriuscita dai recinti giapponesi. È sicuramente vincente, funzionante l’idea di
Hudson Soft degli omini scemi che sganciano
ordigni dentro un labirinto di mattoni sgretolabili, ché se adesso continuano a uscirne
episodi vi sarà pure un perché, vi sarà un fattore di trasmissione anche.
Le grafiche sarebbero non significanti, se
non fosse per questa magistrale copertura degli spazi, che
subiscono gli schemi di Pac-Man a infierire su frontiere giuochiste
pressoché vergini: «attento a buttare
le bombe, ché sono armi a doppio taglio vicino a un muro, quando sei chiuso da un
nemico che procede automa verso dove stai tu». Il fine è quello di
bombardare – nel vero significato del termine – i nemici che popolano questi mondi
squadratissimi e ivi trovare l’uscita che dia accesso alla sezione
prossima, e
non vi sarà espediente strutturale di alcun tipo ma unicamente consumo allo stato brado,
per magari in multiplayer, a modo di arginare l’unico, vero limite riscontrabile in fase di
scampagnata a medio-lungo
termine, in single player, con lo spettro della monotonia a dire che
è forse il caso di scriversi la password del livello testé concluso su di un
qualche foglietto di carta e accattarsi il multitap. Ma però poi il
giorno seguente si rileva che codesto Bomberman è assai pieno di potenziamenti
interconnessi al lancio
bombe e alle abilità corsiste dell’omino col casco, e che tutto sommato, dal mondo due in
su, vi è quantità di materiale sufficiente a irretire pure anche il facente
ausilio di sparatori alla Gunhed.
Nel perpetuo innescare linee
di fuoco di grande scatenazione, ché se non ci si ripara dietro i cubi se ne
diventa vittime, si rivela quindi il disegno di una Hudson Soft votata al
riformismo del puzzle game, quello in cui vi era solo da incastrare cose dentro
altre cose e muovere cose sopra di altre cose e casomai spostare queste cose affinché vi fosse
stata una cancellazione
di strati di cose superiori. La mansione dell’osservare quel che accade sul monitor e
dell’agire di conseguenza ottiene, in Bomberman, il balzo verso lo strategico d’azione di
identità arcade: «ho piazzato file di bombe così all’esplosione avrò un fascio
continuo di ominicidio, e di scemi sono scemi i cattivi testarotonda che non si spostano e
che anche sono ben felici di abbandonare i luoghi senza senso della Hudson». Bisogna
trovare l’uscita. Se nelle fasi preliminari questa ultima si vede presto, ché è murata
da un blocco sistemato a due pixel dalla zona di immissione, via procedendo, nel momento
in cui i livelli rivelano lo scrolling si dovrà produrre fasi di baldanzoso
ispezionamento e potrà addirittura succedere di soccombere, mentre intanto
che si cerca. La sobrietà delle grafiche a cubetti quanto delle
caratterizzazioni restituisce azione di prima scelta malgrado lo spettro
della replicazione degli schemi, ma pure rimane meritevole, rimarchevole il bombardare a
destra e a sinistra fissi a canzonare questo motivetto che va in loop
in figura di spirale di suoni a cui assuefarsi lentamente, ma così senza
impegnarsi troppo.