FINAL FIGHT di @Luca
Abiusi
Si tratta
di tornare su Final Fight e di buttare le mazzate sempre, poiché a fine anni Ottanta il
coin-op Capcom era il manuale del picchiare a scorrimento e perché è grazie a Final
Fight, con Street Fighter II di là da venire, che il genere
inizia
concretamente a evolversi. Già si avvista in questi tre personaggi la personalità
dilagante che vuoi o non vuoi determina e direziona il gameplay di marginale
imperfezione strutturale; in virtù del
suo essere esportatore di carisma e violenze come non s’erano mai viste, Final
Fight invita a soccombere dolcemente sul guadagno del pixel al gettone, fare
consumazione e pur sapendo di dover cadere presto. Final Fight è nell’Ottantanove
il videogioco da provare in coppia con l’amico per affrontare i ciccioni del
primo livello con superiori margini di vittoria. Ma dopotutto se codesto Final
Fight viene a tutt’oggi riedito su Live Arcade e PSN vuol
dire che Capcom ci aveva visto giusto a disegnare le
New York delle
metropolitane, dei punk, delle prostitute dai capelli rossi che attaccano a calcioni. I
nemici: altra caratteristica portante che realizza lo stile del picchiatore Capcom.
Quel che si dovrà fare è premere il pulsante di fuoco a
oltranza e con manovra di tempismo utilizzare a memoria le mosse più utili
al quadro, in quanto col singolo atterramento si può creare l’effetto domino
e fare del male a mucchi. In Final Fight vi è l’arbitrio del danno
procurato: gomitate, spintoni, calci in faccia, sangue, coltello. Lo
scenario della metropolitana è un film di reiterata visione ma che anche
funziona nell’idea del prodotto che deve approssimare gli spazi rispetto a
un bisogno di colonizzare la sezione che arriva orizzontale. Finché il
genere restò in piedi, Final Fight rimase la più influente materia
d’ispirazione per lo sviluppo di un certo tipo di gameplay, di un
determinato quartiere estetico di bidimensione sporca e fondali generosi per dettaglio e parallasse persistente.
I grattacieli. Le strade sporche. E importante ravvisare una solida animazione degli
sprites, che per altro sono possenti e assolutamente caratterizzati su
taluni fisici di guardiani di fine
livello che superano la metà dello schermo, e ancorché le musiche attestino
la media delle
produzioni Capcom gli effetti restituiscono il mestiere della variazione ambientale
circostante col rumore del cingolo sulle rotaie, o traverso l’indimenticato ultimo
quadro, dove si sale sul
grattacielo del boss. Final Fight è un
Double Dragon
con le grafiche potenziate: sovviene quindi un grado di sfida ancora
migliorabile, nonstante le superiori meccaniche difronte a Technos e al
resto.
Il consumo è su buoni livelli, ma si dovrà
agire in coppia, ché Final Fight sembra
esaltare questo tipo di interazione a quattro mani e a doppia arma e
tuttavia va detto che il beatem up è piuttosto esigente nel
gioco in singolo, e sebbene il suo fare ostilità aumenti la durata
dell’esperienza sarebbe stata opportuna un’intelligenza artificiale meno
artificiale e più umana al contatto fra sprites. Ma tant’è, il sistema di controllo
di precisione e funzionamento consente di performare un vasto florilegio di combinazioni, ivi compresa la
classicissima mossa evasiva (quasi un bug) che colpisce gli avversari
contestualmente al salto all’indietro.
Ogni schermo trattiene una vasta selezione di feccia. Ma i malfamati inediti
vengono introdotti piano piano. Urge applicare la costante del pattern
scientifico. Al boss vi è un ciclo di mosse da portare a inganno, ma si
dovrà morire prima. Che non sarebbe neanche un problema adesso col mame,
eppure la frustrazione del dover fuoriuscire dalla logica d’impatto per
imparare a ragionare come la cpu potrebbe causare un occasionale
invecchiamento dello strato cutaneo. Ma controindicazioni a parte,
risulta naturale considerare Final Fight un titolo guida per l’affermazione
delle meccaniche del
picchiaduro a scorrimento laterale, pur malgrado i suoi limiti oggettivi, e
anche nel suo riferire di una software house che sebbene svezzata era ancora
giovane, migliorabile; Capcom staziona nella plasticità dei combattimenti esaltando i bicipiti e
la figura del maschio statuario, trattando le donne come mignotte, creature
di serie b. Grazie a Chun Li e
Street Fighter II, la stessa Capcom avrebbe
riconsiderato la sua posizione riguardo all’edonismo raeganiano applicato al
videogioco, ragion per cui si è portati a definire Final Fight quale ultimo prodotto di
genere degli anni Ottanta.


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