Armed 
Seven serra seme
    sull’orlo e quasi rompe gli argini defluendo su tasti un tempo lucidi di lacca, ai
    tempi che precedettero il vischioso Full Metal Sister Marilu 
e il gustoso andare su e giù di Crimzon Clover, ricco rosso blending
    danmaku che si mette a millantare proiettili sugli attrezzi maggiori – e minori 
–
    della Cave. Ma Astro Port si guadagna la turgidezza tipica del mastro di
    videogioco con le deambulazioni potenti di Gigantic Army, walker
    tutto zincature e “tzzz, tzzz”, e razzi inferiori per sollevare le corazze in
    ferro ai piani superiori pieni di sorprese, mai carenti in superleghe nemiche a blindatura
    e in zanzarame-spia, insetti fastidiosi da puntare col cannone e annullare prima che si
    cominci a perdere tacche di nichel prezioso in prospettive future, dal momento che il
    superamento del livello ripristina giusto esigue percentuali energetiche. Gigantic Army
    semina seme. Sparge semi e finisce per inseminare il sottogenere del robot d’azione con
    spruzzi (sprazzi) di armageddon gassoso fumante di fumi tossici e agglomerati
    interstellari di polveri facendo leva su tecniche di confezionamento sottovuoto assai
    avanzate, per un gameplay che quindi mantiene costante l’indicatore della disintegrazione
    malgrado il ritornare, il riciclare delle sparatorie antiche del Novantadue.
    Gigantic Army è un blocco di ferraglia: «cameriere,
    gradirei un blocco di ferraglia e del cherosene invecchiato, e visto che è qui mi porti
    uno di quegli infusi di pioggia acida, quelli color pece, non quelli ruggine-carbone che
    vendono al cybermercato 7 di Neo Berlino Est». Tutto, in Gigantic Army, è stridore
    di cardini d’acciaio fondente e ciminiere, tralicci e travi da mille chili saldati al
    cemento rinforzato a strati di zinco e piombo, bulloni grandi quanto un pallone
    aerostatico. «Lo avverto, il tremore delle terre, il vibrare dei pistoni dei
    mostri-robot più mastodontici della storia, che di similmente gigantici, frastagliati,
    non ne vedi neppure nei combattimenti ferro a ferro di Gundam Wing: 
	i cavi delle giunture propagano elettrici super energie a diffusione fredda, 
	per mantenere a temperatura i cilindri degli equilibratori frontali. E bei 
	tempi, si, quando si assemblava i possenti mech da lavoro e la guerra era 
	uno spettro lontano galassie, poiché fu la guerra a fare di codesti 
	strumenti da cantiere degli strumenti da guerra a cui avvitare alabarde a 
	medio raggio e tre moderni fucili mitragliatori, per affrontare i giganti e 
	conquistare il futuro». Congestione. Gli operai Astro Port offrono una rilettura
    addiruttura apocalittica delle opere in pluridirezione della Konami di
	Probotector, e
    tendono ad assemblare, e vogliono cominciare a riscrivere il metodo di messa a bersaglio
    decurtando il tasto del bloccaggio, quello che in 
	Gunstar Heroes consentiva di
    sparare e direzionare da fermi.
    Gigantic Army è uno shooter dal frastuono
    pesante. Un’onda d’urto che investe e fa rumore di scheggia di metallo infuocato a
    meteorite, criptonite, consistenze ferrose, quintessenze granulose e odore di zolfo, di
    fumaiolo all’ossido di azoto, azoto liquido, acciaio che fonde nelle presse, bestioni che
    schiacciano e spaccano. Lo scudo. Lo si fa roteare – lo si configuri su di uno degli
    shift, in caso si usasse uno di questi joypad moderni – ed è come di roccia tra i 
	raggi
    beta che scavano anche il catrame rinforzato dei palazzi dell’anno 3000. Ma non lo
    scudo. Che resiste a tutto ma che bisogna imparare a mettere in posizione diagonale o
    verticale, quando serve, col tempismo di chi ha già veleggiato tra le acque burrascose
    dei migliori Metal Slug, coi proiettili che fanno zig e poi zag e che mica stanno
    a guardare se sei pronto, se la tua cena è pronta e hai dovuto per un attimo perdere di
    vista la fine del mondo tuttora in pieno svolgimento sul monitor. Gigantic Army è un
    fatto serio. Continue ridotte al minimo e dissoluzione arcade da coin-op Capcom munito di
    slittata  à la Strider Hiryu, mossa clamorosamente utile quando non resta che un
    quarto di minuto all’esaurirsi del countdown e vi è urgenza di acquisire l’apposito box
    del tempo aggiuntivo. Persiste quindi una struttura sonora di boati e rombi e rimbombi che
    incastrano trucidi una sinfonia di musiche metallare a impulsi di bit, e si realizza
    concreta, ancora, la convinzione di manipolare un videogioco dal peso specifico
    impensabile pur addentro il suo ristretto mercato doujin. Astro Port ha comunque
    considerato la via del pay-to-play sui principali canali di digital delivery e bisogna apprezzare, benché la cover della copia fisica dica a gran
    voce «comprami, comprami».
    
	
	