Li
osservi stringere un’alleanza col disegno infantile giapponese questi umani
di razza superiore di nome Human, portatori del verbo tennistico realista, visto che dovevano liberarsi come di un peso, assolutamente dovevano far vedere
al mondo di essere capaci di realizzare il tennis sguazzando all’interno di
soluzioni stilistiche congenitamente in conflitto; se allora da un videogioco con
gli omini ci si poteva attendere in linea di massima un gameplay di qualità
standard e un tipo di
intrattenimento di mentalità arcade, e di grazia non un simulatore, Final Match
Tennis interviene a confutazione di questa legge non scritta a
insnuare i principi del simulatore universale dentro una struttura
apparentemente votata al divertentismo giapponese di Mexico ’86 o
Passing Shot. Human
intercede verso una manovrazione che si protenda verso la fisica d’impatto, che sia
assolutamente plausibile quando dispone disuguali i tennisti gli uni difronte gli altri in
assetto difensivo a fondocampo o da attaccante di volo e nel momento in cui la stessa
impugnatura del rovescio può decidere la direzione finale di un colpo scagliato in
perfetto timing. Era avanti di almeno vent’anni, Final Match Tennis, nel Novantuno, se si
pensa che lo stesso Top Spin 4 avrebbe costruito sul principio dinamico del
ritmo.
Si tratta di colpire bene: qualcuno ha
addirittura pensato di poter imprimere la direzione con la croce digitale,
che sarebbe anche la mossa più coerente all’atto del trovarsi davanti a un
videogioco ma il fatto è che Final Match Tennis evita di genuflettersi al
manovrante, al crepuscolo degli anni Ottanta, per iniziare a educare le
utenze a un tipo di interazione realmente approfondibile sul lato
geometrico, acché sia l’intuizione tennistica a determinare la chiusura di
un punto, possibilmente dopo uno scambio di trenta colpi e dopo due o tre
recuperi estremi. Se vai di dritto e premi verso sinistra – se si è
destrorsi – la pallina finisce fuori dallo stadio. Inerzia. La scienza del
moto applicata al tennis dice che la direzione trasmessa a un corpo mobile
deve corrispondere, in fase di aerodinamica, a un fattore di anticipazione o
posticipazione del contatto, affinché l’incrocio avvenga in accelerazione
frontale e il colpo lungoriga in dilazione del movimento stesso. Human mira a offrire un tennistico il cui realismo sia impugnabile
sulla base di algoritmi balistici conclamati. E il giuoco, in accordo, dovrà
diventare un flusso di rintocco assolutamente votato all’armoniosa cattura
del tempo di battuta e ribattuta, un luogo di coerenza funzionale, palestra
di potenziali astri del tennis.
Passa dunque in secondo piano il menu delle tre opzioni
di numero – «ed è già tanto», Human dice, «ché la modalità training
con la macchina sparapalle manco la volevamo inserire in quanto in TV davano
la finale del Roland Garros» – con giusto disputabili un singolo torneo a eliminazione
e una “esibizione” per uno o quattro giocatori, che diventa comunque basilare
quando si raccattano – anche dalla strada – tre esseri viventi aggiuntivi da
connettere al multitap. Le estetiche sono manchevoli ma esatte, dal momento
che così dovevano essere sul PC Engine degli omini con le teste rotonde, e
metti che avessero optato per una grafica più realistica – per quanto
realistica potesse apparire, nel Novanta, una grafica – e che le utenze
giapponesi non ci giocano poiché non ci sono i pupazzi, quindi è meglio
lasciarlo così questo rotondume di cose carine che si muovono e che buttano
le palle con le racchette, ché non era e non è sulle visuali che Human vuole
costruire il videogioco tennistico del secolo. Ma è sulle meccaniche. Sui
meccanismi mai visti prima del Novanta in un giochino su HuCard o su
qualsiasi altro formato, e non ci sarebbe voluto molto ché tutti si
mettessero a imitare la software house sulle console a sedici bit appena
uscite, pur senza lambirne i traguardi. Final Match Tennis, che in apparenza
era fatto apposta per il giapponese bambino, diventa così un attrezzo fatto
apposta per l’aspirante Ivan Lendl, nel Novanta, che era il tennista da
battere, in quel periodo. Videogioco? Macché: esperienza di gioco, diremmo,
un qualcosa che oltrepassa l’intrattenimento.