Accentuano
i dintorni di un disegno di tinture minimali loro, che di fanciullesche
elaborazioni nintendare abbastanza disuguali dai Super Marii World & Bros,
Donkey Kong Country, non avevano prima di allora osato neppure pensarne onde non
incorrere in sanzioni amministrative commutabili a licenziamento, seppuku,
licenziamento con seppuku loro ch’erano stati educati a una dimensione regolare
“post-otto bit” che non doveva risultare troppo diversa dalla unidimensione
degli otto, ché tanto i videogiochi prodotti da Nintendo erano in larga
porzione fatti apposta per i nintendari, e quindi per gli stupidi ma c’è
qualcosa di più in Yoshi’s Island, la maturità della rappresentazione epocale
sicuramente, una patologia di scenari predisposti alla trasmigrazione, la
divagazione ardimentosa degli schemi del videogioco al salto, condizione
raramente vista su console se si esclude un qualche precedente livello di un
qualche Sonic nel quale ciò ch’è giusto si osava, e d’ogni modo nell’isola di
Yoshi si marca il territorio dell’opera indiscutibile che istantaneamente
intercede al nuovo platformismo a interpolazione di colori e fondali in
Mode7, parallasse surreale fotostatico, storyboard volutamente irregolare che va
assai oltre i sigilli dell’hardware, assai oltre le frontiere della pop-art.
Scolpiti nel legno della multiprogressione e
disallineati, i luoghi di Yoshi’s Island dichiarano di non voler essere
troppo infanti malgrado il bambino protagonista e il rotondume, ed elemento
alcuno dovrà turbare il deflusso di gameplay anche volendo: la fantasiosa
struttura del programma scava il bordo interiore ed è fastidiosamente
esatta quando s’inventa videogioco complessivo per il conoscitore o
l’incursore allergico gli schermi bonus, colui che s’attacca al
cliché dello spastobimbo Mattel che si finisce quadri in apnea
pur senza sapere che il giuoco dura più
di un monolite in ogni caso, fermo rimanendo che le deviazioni debbono esser
prese con tutto l’esercito degli oggetti poiché altrimenti il garbuglio di lande e pixel se la
prende e ti butta fuori trallallero trallallà, a raccogliere i fiori, e
questo è quanto. I fatti estrenei alla
realtà pigiano felicemente i pulsanti del joypad, spaziano a rimembrare i
platform della scuola arcade, quelli pressoché impossibili alla
Rastan Saga come spauracchi di un genere
sorpassato, ché Miyamoto è un bambino che porta avanti l’idea esemplificata
del saltare e raccogliere, e questa ridistribuzione del materiale
bidimensionale, quasi ellittica, a voler riempire statisticamente gli spazi
di interazione rivela all’astante un’idea di gameplay che sa di focolare,
fiaba a lieto fine, presidio fugace dell’infanzia. Yoshi’s
Island dà prova dell’esistenza di un substrato onirico dal quale è
fattibile estrarre materie prime e colori nemmai visti, o semmai ipotizzati nella nebbia di un impossibile sognamento di mezzo inverno.
Nintendo determina. È marchiano il suo creare
automatismi estrosi da «se vuoi il giocattolo vieni a prendertelo» per fare
da saltimbanco del dislivello in ricerca di nicchie e triangoli e in veste
di allenatore di Yoshi. Ritmicamente pensando Yoshi’s Island è qualcosa di
molto simile a un cronometro: spacca il secondo. Ci si immola negli
acquerelli in Super FX2 – avanzato chip custom stipato nella cartuccia – a
slinguazzatura dei nemici, che vengono
ingeriti e trasformati in uova inseguenti da usare come arma di supporto, e non vi è
il rischio di
stizzirsi per una vita perduta o un qualche manovramento maldestro giacché
le circostanze
di gioco sembrano assolte in anticipo allo spettro della frustrazione. Non si
muore subito: salvi i casi di accidentali schianti, una bolla galleggiante preserva baby
Mario per il tempo occorrente a farsi recuperare dallo Yoshi. Ondulazione. Ondeggia tutto
in Yoshi’s Island, compresi i guardiani-scarabocchio alti quarantasei pixel,
incubi preadolescenziali di un adolescente di nome Miyamoto che ordina effetti speciali come lo zooming,
il morphing, lo scaling e che introduce il poligono pieno
per vedere di scostare il
disegno dall’essenziale incollatura di pixel ed elevarlo a concetto estetico vivente, a forme
bidimensionali che
ridefiniscano il silicon graphic di
Donkey Kong Country verso mistioni
neutralizzate, mancanti di pre-rendering e dell’artefatto del ray-tracing.
Il trionfo esteriore e teorico di Yoshi’s Island si realizza nel perseguimento
di un nuovo elementarismo visuale come attraverso il parziale disfacimento
delle esistenti tecniche di scrittura. L’innovazione
dei super microprocessori grafici, nello specifico, è resa al servizio del
nudo design.

