Nientemeno 
del disordine istigato dal disallineamento di un singolo numero di un’equazione 
prevalente. Nel ’98 era uscito questo clamoroso film di Aronofsky portante nome 
di “Pi greco - Il teorema del delirio” dal quale Satoshi Kon potrebbe aver 
drenato l’eccezione dell’innesco dell’effetto domino, poi determinante sulla 
discontinuità di eventi che avrebbero dovuto correlarsi in un cliché di volontà 
prescritte; ne sussegue che il caos degli universi alternativi si manifesti (e si 
mimetizzi) tra gli incastri esistenziali di persone – e ipotizzabili fantasmi, 
episodio 8 – alla ricerca di facilità o compromessi, o di quiete molesta, una 
possibilità d’ordine che scaturisca dalla mente di una disegnatrice di cartoni 
animati in impasse creativa sotto forma di “Shonen Bat”, fantomatico 
aggressore seriale fornito di rollerblade e mazza da baseball. Il fattore 
coincidenziale anco ritrovabile in 
Tokyo Godfathers 
– si assiste non per vezzo a un cameo dell’infermiera Kiyoko – che in Paranoia 
Agent nasconde un risguardo di visioni metafisiche e incubi a occhi impietriti, 
vorrebbe risultare di traslazione al 
sogno senza una fine cui 
il regista, nel 2004, stava iniziando a porre le basi. L’indagine risulta 
scrupolosa. Apre a modificazioni di stile e di colore nel corso di uno stesso 
episodio, a dare accento al cambiamento dei parametri della esplicazione 
ambientale quando pure in misura di flasback o parafrasi temporale 
autoindotta.      
    Matura un qual deragliamento dell’istituto delle parti. 
	Potrebbe occasionalmente essere che un attore secondario diventi poco a poco superagente 
	Radarman con licenza a indagare l’incoscio; è risparmiato il ruolo 
	cosiddetto definito nel presente film di 325 minuti che sembra una serie TV, 
	che si parla di cinema e ci mancherebbe solo di uscirsene che Paranoia Agent 
	è una cosa a puntate, e di non 
	vedere come Satoshi Kon utilizzi in situ gli stessi complementi 
	d’immagine che fu aduso a illustrare nelle sue opere anteriori, che sono le 
	figure riflesse, le sagome trasparenti danzanti e, sul termine strettamente 
	tecnico, i fermi di posa prolungati e i controluce, per contrassegnare il 
	manifesto dei volti di una ulteriore superficie visibile più dell’auscultabile 
	strato dell’epidermide; la eventualità di applicare sulle componenti umane uno 
	strumento di compensazione psicologica che smuovesse il recipiente delle 
	prove vorrebbe confluire dentro a un luogo di sospensione dove coscienza e 
	subcoscienza 
	s’interscambino di settore, una banchina di transito presso cui i pupazzi e 
	gli zombie acquistino parola e conseguano tra loro 
	situazioni subnormali e orrori da rispedire oltre questa linea di 
	demarcazione che in un mondo perfetto avrebbe dovuto creare un trenta 
	centimetri di spessore tra la razionalità e la tana dei bianconigli mostri. 
	L’ordinarietà, eppure, non deve appartenere a queste terre di persecuzione 
	del racconto didascalico e disintegramento atomico del metodo narrativo 
	classico, nonostante che si riscontri di qua e di là una qualche 
	interferenza di elementi di saccarosio jap-style che andrebbero 
	comunque etichettati a livello di sana provocazione. 
Il fatto che a tutto il 2019 ancora si bisogni di 
un designabile autore che sia meritorio di raccogliere il “patrimonio 
dottrinale” rimesso ai posteri da Satoshi Kon trascende l’assenza di designer 
con determinate virtù, riconoscendone diversi – e daremmo credito a questo Ilya 
Kuvshinov (Birthday Wanderland) cui si potrebbe chiedere di metter mano a 
“Dreaming Machine” – con apprezzabili capacità di make-up e direzione 
dell’animazione, ma che in ogni qual modo difficilmente userebbero lo stesso 
concetto di animazione a stregua di suo palesamento, implicandone come in 
Paranoia Agent gli aspetti scabrosi e taciuti del mobbing, del 
sovraccarico di lavoro, delle pressioni continue circa i tempi di consegna e le 
scadenze, inflessibili e inderogabili. Ma «che l’allusione rimanga sottile», 
sottintende il regista. Ché le sue idee non sono urlate. E oltremodo minimalista 
è il suo intendere le scelte di comunicazione dello scritto, manco se lui in 
persona suggerisse ai doppiatori di calibrare il tono rispetto al pathos 
richiesto, datoché la caratterizzazione visuale arriva comunque dopo, è 
importante ma arriva dopo che si siano stabilite le variabilità testuali di un 
finale che dovrà rimanere aperto a una diecina di interpretazioni almeno. 
Si deve parlare di Tsukiko. Tutto vorrebbe ruotarle intorno ma non è questo il 
punto. Si descrive un personaggio il cui magnetismo riesce a riunificare 
l’intero cast in una specie di legatura spiritualista che sia di pacificazione 
di ogni cattivo presagio, nell’imminenza della materia oscura che cancellerà il 
futuro presente, concedendo a quest’ultimo una seconda versione o un milione di 
altre, perché l’equazione vuole aggiustare gli errori, le disfunzioni dalle 
quali tutto ha avuto origine... L’edizione di Paranoia Agent a cui ci si è 
riferiti, risalente al 2007 e ormai fuori stampa, venne realizzata in formato 
DVD da Panini Video profittando del consenso che Satoshi Kon iniziava a 
riscuotere in Italia grazie a Paprika, favorevolmente accolto a Venezia.      
 
    
	
	