Dissero 
a Konami che gli occidentali lamentassero l’assenza di tale Otomedius G. e che 
senza nemmeno considerarne una localizzazione si poteva finire all’inferno, ma 
l’irremovibile Konami replicò che all’inferno ci sarebbe finita comunque dopo 
Castlevania: Lords of Shadow e che inoltre non v’era motivo di trasferire alle 
Americhe o in Europa un gioco per pedofili che di suo non avrebbe venduto, e che 
nell’eventualità migliore sarebbe stato oggetto di rating dal bollino 
rosso rosso a cagione delle lolite dai seni estremamente grossi le visibili mutandine, 
ma successivamente 
dissero a Konami che anche i nord americani erano pedofili, e che si poteva 
eventualmente realizzare di Otomedius Excellent una “Special Edition” 
fiorente di artbook, soundtrack, interessante pillowcase extra-large intessuta di muschio 
da consegnare a eserciti biologicamente programmati all’unboxing, «questi 
ridicoli filmati youtube dove i collezionisti aprono le scatole e vi si 
trastullano sopra consumando atto di abiezione». Ma per Konami i dettagli delle 
derive viziose erano secondari: per come la vedevano loro i grassoni potevano 
anche inserirsi i DVD nelle uretre, purché li comprassero prima. E allora 
Special Edition.
    In funzione di alcune sue caratteristiche 
	oblique di minoranza sulle tecniche visuali a confronto del precedente 
	Gourgeous, Otomedius Excellent inizia a indurre a un prototipo di 
	sottoprodotto certamente gravido di anacronismi – presso a d’un 
	sistema d’armi configurabile sul modello che determinò la rimarchevolezza 
	dello sprite degli anni dello sparatutto – ancorquando le principesse 
	avanzino inattese suppliche di protagonismo, telefonia dietro a scrivania, 
	ragazza immagine, situazione d’incasso extra nei quartieri bene dell’Isola di 
	Domburi che significherà convocazione ufficiale in Tokyo Midtown, 09:27 del 
	mattino per ribadir loro che ancor prima che 
	bambole gonfiabili sono soldati gonfiabili a uso e consumo di tutti; 
	Excellent è sette quadri orizzontali più tre, ma intercede sensibile a un 
	livello di uccisione standard piuttosto meglio che al punto G come Gorgeous, 
	e in ordine di frollatura poligonale al boss cinque ammazza la fustigazione 
	possibile al sentiero stellare “St. Gradius Academy” caricando a formazione 
	di raggi option linee nemiche verso persistenti visioni hardcore di 
	Gradius V: ebbro di febbre e storyboard di compartimentazioni cascanti sul pattern un anonimo game designer 
	di provenienza ignota – in Konami non s’è mai visto, sembra si sia fatto 
	assumere da Treasure a contratto part-time – chiede udienza 
	alla storia, ma perde conoscenza; al suo risveglio le luci del laser. i buchi neri. i bagliori 
	la distorsione dello spazio. il caos. il caos... di una Konami che rimette mano 
	ai cifrari dello shoot ’em up giapponese classico per divertirsi un 
	po’, giocare a guardie e ladri, a mosca cieca, al dottore con la cugina 
	quando nessuno guarda.    
    È bello svolazzare su di una valle verde al 
	secondo quadro, al terzo quadro di Otomedius Ekuserento; difatti, il 
	ragionamento del videogioco di ristampa del mestiere su di un che di 
	ripetizione delle frontiere iperfantastiche resisterebbe adesso lateralmente 
	le grafiche e contro l’improbabile idea di poter restituire allo sparatrac 
	la sua migliore gioventù, da che ella svanì con Machiguchi e il seguito di 
	bimbi smarriti della stazione di Akihabara, ma quanto rimane della Konami ci 
	prova lo stesso a reclutare le carcasse delle astronavi abbattute nelle 
	guerre interplanetarie vinte tanto tempo fa in sala giochi, cerca di 
	esorcizzare i ritornanti schemi del titolo di settore con l’autocitazione a 
	forma di pixel – Gambare Goemon – e vorrebbe anche far credere al potenziale 
	acquirente che gli anni ’80 null’altro sono che uno stato mentale, che 
	Ronald Reagan è ancora Presidente degli Stati Uniti e David Hasselhoff in 
	cima al Muro e alle Hit Parade a cantare “Looking for Freedom”. Il film dell’introduzione 
	trasfonde aulenza d’anime di qualità sette e mezzo su dieci. E Konami giustamente 
	travalica il senso della misura ricavando sequenza da quanto la scena 
	dell’animazione giapponese ha recato diciamo in una forbice d’intervallo 
	esercitante tra metà Novanta/primi Duemila fin sul fotogramma preliminare di 
	Aoba Anoa che si trasforma come (meglio di) Sailor Moon difronte il liceo, 
	sul pop leggerissimo e sbrilluccicante di un “fly” in versione karaoke, ché 
	quelle (puelle) magi madoke il cielo se lo vogliono conquistare per potervi 
	rimanere in auge, sempre giovani sempre belle per sempre «assieme a noi per 
	cambiare il mondo, e superare il prossimo stage della nostra vita».        
	
    
	
	