L’offensiva batterica
    inceneriva quel che restava delle forze di difesa terrestri nell’anno 6658. Non rimaneva
    che foraggiare il capo del progetto Gradius, il tenente maggiore Monroe – che era
    seriamente stretto – e mettere le mani sul prototipo di Vic Viper, ultimo baluardo
    all’avanzata del nemico. La nave montava un sistema di armamento a quanti che poteva
    piazzare fino a cinque tipi di attacco: mai visto niente così. Il nucleo dell’aviazione
    spaziale mi era difronte, bellissimo, e aveva il muso allungato ad arpione e due razzi
    posteriori in grado di piegare la luce. I Bacterians facevano paura lo stesso. Ma
    nessuno sembrava conoscerne la provenienza, poiché pariteticamente nessuno poteva fuggire
    ai tentacoli dell’armata una volta irretito. Si trattava di una missione suicida: 
«lasci pure qui i suoi effetti, cadetto James Burton, e raccomandi la sua anima al
    Dio delle galassie. Le auguro buona fortuna».
    Memorabile, l’Ottantacinque. Nei cinema si ritornava
    al futuro e nelle sale giochi si determinava il futuro dello shooter giapponese. E
    uscivano quasi assieme Exed Exes, Terra 
	Cresta e Gradius, portatori sani di innovazioni per il settore,
    ma se si deve optare per la opera che più avrebbe condizionato il mitragliatore a
    scorrimento si deve per forza sterzare verso Konami. Che produce la power meter
    ad allestimento rapido dapprima alimentando lo speed up: lo si può ignorare,
    passare a qualcosa di più serio ma almeno un livello di velocità lo si dovrà acquisire,
    presto o tardi. L’oggettistica a prismi arancioni, che sancisce l’innesco delle armi, si
    materializza annullando le linee di inizio quadro e in seguito centrando i nemici della
    stessa gamma, evidentemente custodi degli esaedri, e da qui si realizza pure la strategia
    di fondo – caratterizzante, marchio distintivo della saga – di questo nove millimetri del
    cielo – dello spazio – giunto su PlayStation 2 in epoche recenti abbastanza intatto a
    testimoniare di quanto fosse draconiana l’intuizione della vasta selezione, della funzione
    option coi pod distaccati che replicano la forma di sparo acquisita in una
    visione di moltiplicazione che adesso sì che posso liquefare sti Bacterians e
    arrivare alla fine anche se i boss non sono così potenti; bisogna difatti rilevare
    la caratteristica, singolare, della difficoltà a mille gradi durante i livelli e
    dell’abbassamento netto della stessa nello scontro con i guardiani. Gradius. Un nome che
    evoca spazio e musiche travolgenti.
    Nel febbraio dell’Ottantasette SPS porta 
	Gradius sul nuovissimo X68000. È il primo gioco della macchina Sharp e 
	tuttavia è già tattile la prestanza di questo hardware Motorola 
	iper-customizzato avanti di almeno dieci anni sulla concorrenza osservando 
	la Vic Viper e i colori, indistinguibili dall’arcade, e ascoltando gli 
	accompagnamenti sonori, indistinguibili dall’arcade. E degustando il 
	gameplay, apparentemente indistinguibile dall’arcade. SPS non deve manco 
	essersi adoperata tanto visto che la scheda arcade sottostava e di parecchio 
	allo Sharp, però va detto che nessuno, a quei tempi, era abituato a vedersi 
	restituiti in casa quegli stessi coin-op che il Famicom faticava a 
	riprodurre pure alla lontana, e pertanto ci si immagina giapponesi dodicenni 
	già proprietari di immobili nel quaritere di Ginza, in Tokyo, attoniti 
	difronte a monitor neri – o grigio sporco, pensandoci, ma chi era tanto 
	folle? – urlare “yattà, ah, ah, ah” ai vicini più sfortunati che era tanto 
	se potevano rivendicare, per Natale, un SG-1000 Mark III. Gradius X68000 è 
	il Giappone inarrivabile e classista della esplosione economica che si 
	riversa inesorabilmente sul potenziamento dei microchip impiegati al 
	funzionamento di cuori artificiali, vibratori, pupazzi di Godzilla, macchine 
	da gioco della NASA. Conversione cult di un gioco cult, Gradius X68000 
	ricusa nell’Ottantasette l’assioma secondo cui il processo di 
	traduzione, 
	per sua stessa etimologia, potesse solo parzialmente ricostruire 
	l’oggetto videoludico di riferimento; il capo redattore della rivista Oh!X 
	avrebbe poi coniato, e consegnato ai posteri, il termine “arcade perfect”.
    
	
	