Quando 
Guybrush Threepwood giunse all’isola di Mêlée portava il chiodo fisso di 
diventare un pirata. A qualsiasi costo. Personaggio scemo, si converrà. Che è 
però introdotto in un contesto così delirante che da metà gioco in poi non si 
potrà che amare, grazie a uno script che è surrogazione del cinema, 
all’interfaccia punta e clicca che fa l’ascensione della Lucasfilm 
dell’avventura grafica interattiva. All’inizio degli anni Novanta la struttura adventure di Ron Gilbert produce lo 
	standard organico della opera concepita per il mouse e in ugual 
	modo afferma la corrente del ragionamento per intuizioni a mezzo cui 
	incominciare assai amichevoli a insinuare il gameplay, e quindi a nutrirsi 
	della miglior narrativa che si potesse attestare, questo concept che 
	progredisce di pari passo con l’evoluzione umanista del videogioco per 
	computer; accadde di caricare Monkey Island e di capire che l’universo delle 
	avventure interattive ne avrebbe tratto ispirazione, e nulla sarebbe rimasto 
	come a prima, come a Sierra, benché vi sia da dire che l’arte dell’intessere 
	le stringhe di dialogo l’avesse iniziata 
Maniac Mansion già nell’87. 
    Nel 1990 The Secret of Monkey Island
    porta alla pazzia. Le riviste del settore decidono che deve essere il 
	videogioco di copertina poiché era chiaro che il possidente standard di 
	personal computer vi si sarebbe fiondato a testa molto bassa, e perciò tutti 
	a dire che era oggetto top score, novantotto per cento, il più grande di 
	sempre. Avrebbero scritto uguale per titoli che a vederli adesso realizzi 
	che a quei tempi davvero ci si rimandasse ai giovini sbarbati, e sta di fatto che 
	nel caso di Monkey Island questi non potessero mostrarsi in errore, ché 
	non vi era di che confondersi davanti l’ingegno manifesto della sequenza 
	del maestro di spada, da ultimarsi a colpi di freddura, oppure quando si 
	deve inoltrarsi nel bosco senza saper come, salvo scoprire che bisogna 
	inseguire, per poi arrivare dove accampano i gestori del circo che dovranno 
	e vabbè, se adesso ci si mette a raccontare si finisce per svelare, per cui 
	è giusto opportuno sapere di uno schema a schermi che mette in relazione in 
	modo diretto l’acquisito indizio con l’acquistato oggetto, metto 
	l’orologio dentro lo scaffale di cui mi ha parlato il tale, sposto il 
	tavolo e trovo mappa, combino un tozzo di pane con la piuma di 
	gallina e creo ordigno nucleare e via dicendo, poiché accettare 
	l’assurdità, in Monkey Island, è il primo passo verso l’avvicinamento della 
	risoluzione, in quanto l’inventiva può non bastare, e bisogna scavare, 
	andare oltre il reale per sottostare a questo mondo di barzelletta surreale, 
	dove si può (si deve) essere al centro di argomentazioni che siano 
	l’ubriachezza dei felloni di inizio ventura, a cercare indicazioni per 
	trovare il tesoro, quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto.
	Visto che al tempo i duecento e passa 
	coloramenti del versante VGA non persistevano ancora, sugli Amiga ECS si 
	scrive di grafiche in trentadue tonalità di cui farsi gran vanto, ché era 
	tanto se le schede EGA ne visualizzassero sedici per quadro, e anche un po’ 
	scolorite col dash. Poco da dire: la tecnica di pittura del pixel rivela 
	prospettive di sfondo allungate laterali e profonde a orizzonte che se 
	guardi bene ti vedi la microanimazione dello sprite di passaggio, il pupazzo 
	che mentre parla sbraita, l’onde del mare che si infrangono, Guybrush 
	Threepwood che vola da un’isola all’altra, le navi. Il motore in 2D è 
	snello, privo di lentezza. Lo scrolling scorre e puranche il caricamento da 
	disco è abbreviato, a patto di avere un disk drive esterno, e a ogni modo è 
	possibile installare. Amiga 500 numero uno della classe e per questo si 
	abbonda in misura comparabile sul suono, che assai prima di iMUSE può fare 
	lo scanzonamento sinfonico a quattro canali che cantano in coro e sanno 
	coadiuvarsi l’atmosfera di cappa e spada, prendi questo e poi questo, e se 
	non ci sono campionamenti vocali è solo per questioni di spazio, mica per 
	altro con tanto di Chris Hülsbeck in cabina di composizione a studio e la 
	sua sterminata libreria di suoni che avrebbe potuto integrarvi, eppure di 
	già così l’acustica è sontuosa, nel 1990, laddove si parlava ancora di 
	Commodore 65 e l’Atari produceva hardware capace di far girare Rygar meglio 
	che su arcade. La bellezza. The Secret of Monkey Island è il pezzo pesante 
	della Lucasfilm, e seppur Noi si continui tuttora a preferirgli il sequel, 
	sfideremmo chiunque a non guardare il qui giacente come al monumento alla 
	gloria del genere. 

