Hawkeye 
è anche questo suo diventare parallasse a sfondo fisso e strano, si materializza 
una sensazione di scorrimento che è comunque prodigiosa, religione davanti al 
Commodore 64 versione 1988. Vennero improvvisamente i Boys Without Brains con un 
videogioco proclamatore di iconografie riformatrici 
	per reagire alla linearità degli schermi unici di simultanei programmi senza 
significato, per cui si utilizzava questa 
	variazione della stringa all’interno di un contesto dove si era oltraggiati 
da visioni di cose che non si capiva veramente cosa fossero; Hawkeye
    persegue il principio della elevazione del ritmo, e attraverso la sua 
apparente figura rettangolare vuole riaffermare l’idea del videogioco della stazione e della 
	ricerca, in modo che vi sia da acquisire le armi atomiche al volo manco si 
fosse su di una console giapponese che di nome fa PC Engine. Hawkeye è tutto 
mostri, creature che svolazzano a sciami, sfondo rosso intenso e mondo parallelo dai 
simboli pagani e super compositi.
        
    Sembra di correre in una scatola delirante 
	deforme depotenziata di umanità. Ci 
	sono i fondali che si rifiniscono da soli, animazioni fluenti, disegnazione 
	del compartimento sprite di una certa impensabilità. Ancora adesso la tecnica di programmazione 
	inquadra mitologie 
	impregne di tintura, che pure nelle attigue limitazioni della macchina Commodore 
	sanno realizzare
    un regno costruito sulla levigatura del pixel, trasfigurazione di centouno fotogrammi 
	che generano i movimenti di alter ego e nemici in sinergia. Tutto è liquido in Hawkeye.
    La matematica del team ceativo comprime il video di forme squadre e 
	dettagli, verso questo fondale di gigantografie perfette, un character design 
	che ascende verso il puro mutazionismo, che converge nella sua linea 
	umanoide come mescolazione fra tubi e sostanze organiche in setticemia. Pure rilevando 
	dieci e più elementi simultanei a schermo, non si è francamente riscontrato 
	artefatto alcuno, e anzi l’immagine decanta austerità; i Boys Without Brains 
	si preoccupano di circuire il quadro di una zona di coerenza e di libera 
	manovrazione, che è anche una spirale di figure aliene ricorrenti: 
	venendo quindi a mancare i modelli referenziali del videogioco fantasy 
	Hawkeye deve addossarsi l’onere della costruzione territoriale ex novo. 
    Il sonoro, affidato ai Maniacs of Noise – praticamente
    Jeroen Tel – sovviene parzialmente inquieto per musiche e malattia, e 
	nondimeno riuscito in direzione
    sintesi. I rumori si adattano ai temi (e ai tempi) della fantascienza a 8 
	bit radicata nel Sid, e vi è un’apertura quasi stereofonica della monofonia 
	del computer durante il moto, pompano le casse del televisore, vogliono 
	espandersi. 
    Hawkeye s’inventa cose ancora in fase di gameplay, qui dove sussiste una attenta commisurazione dei
    movimenti e dei salti; si produce assuefazione e motivo d’incedere, di 
	solcare l’avventura per intera rivelando l’arcano nell’ultimo livello e 
	conquistarsi il diritto di lacrimare cubetti zinco-carbone, allo schermo 
	finale dopo tanta sofferenza, che il singolo salto che ci era sembrato 
	semplice poi in effetti non lo era. Non vi è stato modo di 
	scegliersi il grado di difficoltà, che tende a degradare le mucose almeno finché non si 
	decide di abdicare in favore di Operation Fireball per colpa di questi 
	caricamenti da cassetta, ma è una cosa che succede solamente nell’anno 2018, ché al tempo, 
	quando vi era ancora un futuro, veniva naturale di attendere il tramonto, 
	dopoché si perdeva. L’ultima apparizione dei Boys Without Brains cade nel 
	’93 con  
	Disposable Hero 
	dietro etichetta Euphoria, sull’Amiga, uno shooter clamoroso e nazista, 
	artwork da sanguinamento, vi si osserva lo stile, la riconducibile tecnica.
    
	
	