BUGGY BOY di @Luca
Abiusi
Tatsumi vi immise
due versioni. Una montava un cabinet singolo di tipo standard col manubrio,
l’altra faceva uso di una struttura con postazione a tre monitor allineati,
visualizzanti aree di gioco in widescreen. Ciò sta a significare che per
l’edizione cockpit Tatsumi produsse del codice ulteriore per i
dettagli grafici di bordo pista, che sul gameplay a singolo monitor erano per
altro non visibili. L’hardware su cui il tutto funziona è una scheda con 4 CPU
di base NEC V-30, che per l’edizione a display multiplo era collegata in
parallelo con un ulteriore supporto hardware (tutt’ora non è del tutto chiaro se
si trattasse di un’altra V-30). Tale complessità ha sicuramente contribuito ad
allungare i tempi di ricostruzione via Mame, così che giusto in tempi recenti si
è stati in grado di presentarne un update capace di far rivivere il gioco visto
al tempo, quello che poteva addirittura competere con
OutRun
per effetti di
scaling
e presenza del colore.
Buggy Boy è titolo di corse
di invenzione e Dune Buggy; ci sono
questi cinque tracciati assai pieni di ostacoli, trampolini, rialzi,
insidiosi ponti larghi una striscia da cui si tende a cadere in quanto non
si può rallentare, poiché vi è una gara contro il tempo, corsa a difficoltà
crescente, una Tatsumi che vuol rendere lo spettacolo dell’offroad di
stampo americano. Il track design dei check point crea il
rinnovamento delle mappe, e il paesaggio cambia sempre. Si vince al
completamento dei quattro percorsi (Offroad, East, West, North
e South). Il volante ruota. È di quei volanti
tipo Super Sprint che girano sempre. I programmatori optano per il corsista spensierato-impegnato che
sia qualcosa di speciale
a ogni gettone, acché non si cada nella trappola dei percorsi monotoni – ma
non accadeva mai, negli ’80, in effetti – nonché carenti di scuola arcade. Durante una partita a Buggy Boy
può succedere di acquisire il bonus prima di un
salto di venti metri dentro a un fiume inatteso, e accade il ribaltamento,
la serpentina a evitare sassi o lampioni o qualsiasi altro oggetto disposto per
realizzare continuità. La medesima continuità avvertibile giocando ai
coin-op corsistici
della Sega: Tatsumi riesce a crearsi il suo spazio.
Non si può dire che i programmatori si
siano risparmiati. A metà Ottanta devono esservi stati altri due o tre
titoli in grado di reggere la V-30 a tecnologia NEC, il cui processore viene
in effetti spinto ai suoi limiti per fronteggiare il disegno turistico e
una animazione virtuosa.
L’accelerazione forza le sospensioni e si vede il mezzo rimbalzare per
asfalti, terreni, inclinarsi sulle pareti oblique, infilare il tunnel. Il
pallone. Tutti si ricordano del pallone. Che appare in mezzo alla strada per
farsi colpire e finire lontano, consegnando il regalo. Il sistema di
controllo realizza la puntualità dello spinner. Almeno cinque gradi
analogici di inclinazione fanno che allo sterzo corrisponda un giro
verosimile; non vi è l’effetto di resistenza progressiva di OutRun, una cosa
del genere non poteva esservi al di fuori di Sega, ma esiste comunque in
Buggy Boy la rispondenza con la realtà (la irrealtà) che s’intende
replicare, sebbene in un moto di approssimazione cromatica e di occorrente
clonazione delle macchine, che sono tutte uguali. Ma Buggy Boy è bello.
Quando uscì per i computer Commodore dovemmo prendere. Aveva il limite del
controllo via joystick eppure convinceva e scorreva bene, ed era anche
rimasto il bonus del pallone. Ma non era il coin-op. Manco su Mame è il
coin-op. In sala giochi era più bello. Ci ritornano le immagini di quella bellissima estate dell’86, al
mare, da bambini, la saletta del campeggio, Buggy Boy.


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