 Per 
SoulCalibur Namco scelse la scheda System 12, che di fatto poteva essere il 
successore di PlayStation a forma di coin-op. Si poteva per cui prevedere 
del videogioco un pronto trasferimento su console di effigie Sony se solo non vi 
fosse stato il problema dello Z-Buffering, 
	un effetto tridimensionale d’alta sofisticazione che l’alquanto bollito 
sistema 
	di Kutaragi, per stessi comunicati di Namco, non era in grado di gestire. Fu Sega a
    rimettere tutto in discussione quando sul finire del Novantotto introdusse la prima console a 128
    bit, ovverosia quel Dreamcast le cui proprietà tecniche erano sembrate smisurate anche
    agli occhi dei potenziali detrattori, Sony compresa; quando giunse voce di un accordo di sviluppo tra Sega e
    Namco si pensò subito a un possibile adattamento di SoulCalibur,
    e difatti l’annuncio del port Dreamcast 
avvenne nel gennaio del 1999 nel corso di una conferenza stampa riservata agli 
addetti. Lo stesso giorno trapelava via internet una immagine di Mitsurugi a 
spada sguainata che fu abbastanza perché l’avvenimento rivelasse la sua verità: 
la versione Dreamcast di SoulCalibur avrebbe surclassato la controparte arcade.
Per 
SoulCalibur Namco scelse la scheda System 12, che di fatto poteva essere il 
successore di PlayStation a forma di coin-op. Si poteva per cui prevedere 
del videogioco un pronto trasferimento su console di effigie Sony se solo non vi 
fosse stato il problema dello Z-Buffering, 
	un effetto tridimensionale d’alta sofisticazione che l’alquanto bollito 
sistema 
	di Kutaragi, per stessi comunicati di Namco, non era in grado di gestire. Fu Sega a
    rimettere tutto in discussione quando sul finire del Novantotto introdusse la prima console a 128
    bit, ovverosia quel Dreamcast le cui proprietà tecniche erano sembrate smisurate anche
    agli occhi dei potenziali detrattori, Sony compresa; quando giunse voce di un accordo di sviluppo tra Sega e
    Namco si pensò subito a un possibile adattamento di SoulCalibur,
    e difatti l’annuncio del port Dreamcast 
avvenne nel gennaio del 1999 nel corso di una conferenza stampa riservata agli 
addetti. Lo stesso giorno trapelava via internet una immagine di Mitsurugi a 
spada sguainata che fu abbastanza perché l’avvenimento rivelasse la sua verità: 
la versione Dreamcast di SoulCalibur avrebbe surclassato la controparte arcade. 
    Sebbene dalla sua immissione siano trascorsi 
	quattro anni*, SoulCalibur vuol essere immune al raffronto coi titoli di 
	genere contemporanei, e lo stesso SoulCalibur II 
	sembra rivedere solo 
	a margine la sua dottrina. SoulCalibur è un concentrato di
    meccaniche innovative e rivoluzionarie, di tempi di gioco che spaccano il secondo, di
    coreografie circensi asservite al danzare perpetuo di Xianghua e all’elegante 
	tirar di scherma di Sophitia dove tutto deve ruotare attorno l’8 Way Run System, il
    metodo di spostamento che ridiscute la profondità spaziale classica 
	creandola vigente nell’intera area di calpestatura visibile: i movimenti del combattente 
	possono in tal modo
    performarsi nelle otto vie consentite dal joypad senza interruzione di continuità e
    con la semplice adduzione della croce digitale. Manovrare SoulCalibur è allo stesso
    tempo una questione di istinto e riflessi, un qualcosa che porta il 
	giostrante ad
    attuare strategie comportamentali in diretto rapporto allo stile marziale dell’avatar,
    acché la battaglia si manifesti cerebrale in funzione di attesa e furiosa nell’atto della
    penetrazione verticale. Quello di SoulCalibur è una specie di fracasso controllato che
    accentua il fattore strategico e che pertanto tende a privilegiare l’interazione tra due
    umani, benché lo spessore del duello sia altresì avvistabile consumando fior di
    modalità in singolo giusto pensate per diluire il gameplay. Quindi interviene il Mission
    Mode, il quale è assai simile all’Edge Master Mode di 
	Soul Edge.
    Stazionare per quest’ultima opzione 
	comporterà il graduale sbloccamento di una serie di scenari e personaggi addirittura non
    presenti nell’originale versione coin-op (si veda lo straordinario Cervantes)
    e si capisce, proprio qui, abbagliati dai marmi della arena di Seong Mina, che puranche
    col suo bagaglio di rinnovamento di culture e di strutture la opera Namco sarebbe nulla se
    derubata delle sue arti visive. SoulCalibur è picchiaduro in 3D dalle estetiche 
	francamente inaudite, con questi modelli poligonali che si presentano
    in pelle unica, salvi da qualsiasi spigolatura, assolutamente sinuosi sul contrasto
    cromatico, nel realismo del vestiario, per le sontuose animazioni venute fuori da
    maniacali sedute di motion capture. Lo sfondo mette in rapporto blocchi di
    irriferibile bidimensione col dettaglio di strutture poligonali in hi-res 
	che portano l’arte della tessitura, rendono la visione dell’immaginazione, e 
	ancora assuefatti da fotografie che diventano
    pressoché cinematiche (e cinematografiche) verrà infattibile di rilevare il
    singolo artefatto che comprometta il defluire di questa perfezione che è anche acustica,
    nella messa in opera delle musiche da orchestra che suonano epiche i toni della battaglia,
    che trascinano dentro il drammatico realismo del cozzare delle spade, delle urla di
    giubilo e di sconfitta, sul fendente acrobatico di Sigfrido. L’atto di sovvertimento delle
    regole riferite al beat ’em up poligonale che SoulCalibur sintetizza ed 
	estetizza attraverso le evoluzioni sadomaso di Ivy, il personaggio femminile che brandisce la spada
    serpente e che è capace di impiccare il nemico stante a dieci metri, si compie a qualche
    mese dall’uscita di PlayStation 2 come a voler consegnare al Dreamcast e ai suoi adepti un
    attestato di conseguita immortalità.
* 
Fare riferimento alla data di recensione [menu 
Dreamcast]. 
    
	
	