Si 
vedeva ch’era una bestia da che l’hanno inserito nella vetrina delle 
giapponeserie in arrivo su codesto Nintendo Switch, un design da combattimento 
nobiliare che risultava essere tutto l’opposto di quel che Nintendo aveva 
sponsorizzato nel corso della sua esistenza consacrata al riciclo di pornobaffo, 
senza dovere scomodare per forza Punch Out, che col programma di Nintendo EPB 
spartirebbe il solo guantone. Vi era tuttavia da verificare se Arms avrebbe 
all’uscita introdotto un sistema di controllo facente ausilio dei tasti, 
non quella cosa scema per nintendari scemi dove si devono tirare i randelli a 
procurarsi lo strappo del muscolo bicipite; per concessione di Zeus, si vedrà 
come il videogioco opzioni l’uso dei sensori unicamente a forma di favore verso 
gli sfortunati che non sanno manovrare, le casalinghe, i commercialisti che 
passano ma il videogioco, in effetti, vuole che si rechi omaggio ai tasti del 
pad nella maniera più assoluta, sinistro e destro sui rispettivi trigger 
laterali, i bottoni per scansare e saltare, gli shift dorsali collegati alla 
scatenazione delle super mosse. La fase di training è superflua. Sai cosa 
bisogna fare.
Masaaki Ishikawa, uno a cui non si deve insegnare niente, consiglia i ramen 
di Min Min, la combattente che fa i balzi rotanti, e lo dovremo ringraziare 
personalmente alla prima occasione utile visto quanto la ragazza si fa osservare 
per vestimenti, abilità, coefficiente di bellezza.   
Allorché stai difronte a qualcosa di 
straordinario non è che devi metterti a indagare. Accade e basta. Nel dicembre 
del ’96, dopoché la presentazione in CG di Soul Edge ci tramutò in sabbia 
sapevamo che il mondo non sarebbe più stato uguale a prima ancor prima di 
premere start, e stante che poi in Arms non venga rasentato in effetti il 
medesimo stato d’irripetibile rivoluzione tridimensionalista s’intercederà allo 
stadio della storia in modo naturale quando al combattimento sopravverrà il 
luogo metafisico della sospensione del tempo, un posto sulla cui esistenza si 
dibatte ancora, cosmopavone accecante che si manifesta nel caso di Arms dietro sembianza di macro plasticismo, una forma eventuale e cinematica del 
contatto tra supereroi senza mantello, coi loro arti che si estendono per decine 
di metripixel alla maniera del Dhalsim di 
Street Fighter II variando direzione e angolatura sul requisito 
dell’inerzia; al che, a meno che non si agisca da fermi, si vedrà i pugni 
allungarsi e subire in modo continuativo le variabili attive della forza 
centrifuga, per cui succederà che i due estensori s’intreccino tra loro mancando 
l’avversario ripetutamente in una coreografia dello spostamento veloce che 
conduca in parziale misura ai rudimenti dell’animazione tokusatsu, ma similmente 
alla disciplina del beat ’em up dinamico di formazione novantesca dove ci 
sono gli eroi che volano e dove tutti inizano a scrivere i videogiochi sugli 
storyboard di Akira Toriyama. L’algoritmo della trasformazione geografica 
risulta in Arms un fattore preponderante. Le arene quindi, mutevoli in forza 
d’inserimento di strutture abbattibili e a ogni modo sensibili all’impatto – le 
molle angolari utili a vincere il predominio verticale – diventano gli 
architravi dell’azione defluente a schermo.
Ci sono questi dieci protagonisti che portano 
luminosità. Non ve n’è uno che non venga scrupolosamente assorbito dallo 
scenario di antirealismo che si consuma all’interno dei quadri, e risulteranno 
avvisabili assai i loro caratteri peculiari in situazione d’incontro delle 
strategie, già che il terreno del confronto viene acquistato sulla valutazione 
di un significativo numero di fattori esterni che possono rispondere alla natura 
offensiva degli arti inizialmente scelti, siano essi missili, spinner o lame 
rotanti, o alla stessa velocità di solcatura spaziale del molleggiato; una palla 
bionica detonante viene da un drone introdotta nelle arene per fornire additivi 
margini di mutabilità all’esito del combattimento, il quale incorre a mantenersi 
incerto rispetto all’abilità di chi tira i pugni fino alla fine, pure assumendo 
la facoltà di performazione di un “attacco definitivo” votato a sottrarre 
importanti stringhe di carboidrati. Ci sono un sacco di modalità da consumarsi 
in quattro simultaneamente, via split-screen e online. Il misurantore del 
coinvolgimento si mantiene sul rosso anche nei momenti di congestione, quando 
tutto esplode e non sai dove ti trovi. Ed è bello. Le grafiche montano. Gli 
ornamenti, gli intarsi di certuni ambienti determinano apici di smisuratezza 
tecnica che non si attestavano da tempo indeterminato, e tutto appare 
visivamente coerente al fronte delle animazioni, rese a sessanta fotogrammi, e 
il gioco sembra un fiume pieno di colori che vogliono straripare, e sembra che 
il gioco non si curi di chi sta dall’altra parte a vedere; lui sembra detenere 
una sua coscienza ugualmente durante la diffusione del suono di canzoni corali e 
tradizione d’oriente, si sentono i flauti, le chitarre mantengono serrata la 
tensione dello scontro e ti viene come di cantare.  
    
	
	