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 SPACE HARRIER di @Luca 
Abiusi 
 Suzuki 
s’inventò il super scaler perché aveva bisogno di un argomento da 
discutere in tesi, con tutti gli altri che avrebbero argomentato sul Basic e le 
sue implicazioni rispetto all’imminente sbarco su Marte, e questo accadeva 
diversi anni prima di essere ingaggiato da Sega, dove la sua tecnologia potè 
trovare applicazione su di un gioco il cui sviluppo
    aveva richiesto un hardware specificamente modellato (si trattava di un doppio processore
    MC68000, scheda che sarebbe divenuta lo standard per i successivi 
videogiochi di Yu Suzuki). Il
    titolo in questione portava il nome di Space Harrier. Sega 
inizia a
    fornire l’effetto lobotomia. Quindi il video-utente viene bombardato da quintali di
    grafiche e vettori mai visti prima, ché nel 1985 il massimo concepibile per un
    videogioco, in termini visivi, era probabilmente 
Ghosts’n Goblins. Non che il
    titolo Capcom ai tempi non avesse il suo culto, ma si può dire che l’effetto che Space Harrier
    ebbe sul frequentatore medio delle sale giochi fu di allenare lo stesso alle frontiere del
    futuro, alle tecnologie nuove, al 3D simulato. Nulla di clamoroso nel 
settore del gameplay,
    di nuovo a struttura classica, ma qualcosa di indubbiamente inedito da un punto di ripresa
    strettamente oculare.
    In Space Harrier si impersona un eroe volante catturato da
    dietro le spalle. Scopo del gioco: sparare. Possibilmente a tutto, col potente cannone
    laser in dotazione, attraverso un mondo non ben definito e altresì popolato da una
    mistura di mostri, robot, congegni volanti. Sussiste diversione d’epoche e bestiari,
    sicché il mammuth e l’astronave corazzata divengano oggetti di un
    fantascientifico viaggio attraverso lo spaziotempo, e nondimeno un immergersi entro
    geometrie di gran realismo, al punto che l’innesco si realizzi sottoforma di campo
    d’allenamento, perché si percepisca la distanza tra pixel. Una volta addentrati nel
    sistema di scrolling autonomo il bersagliamento del nemico otterrà l’atto pratico della
    guida, dello scansar bordate, dell’attacco al boss per guadagnarsi il livello successivo.
    Mansione appagante benché, alla lunga, pericolosamente ripetitiva. Difatti la congenita
    impossibilità di sviluppare l’asse Z penalizza il gameplay difronte allo scorrere di un
    classico shoot ’em up orizzontale, il cui assetto viene adesso a mancare nei
    termini della pura manovrabilità. Codesto limite è in parte mascherato dal ritmo assai
    sostenuto dell’azione, a non far pesare troppo l’assenza di profondità e a far sparare,
    finché si è vivi. Così il gioco, mantenendo costante il livello di intrattenimento e
    pur senza eccellere in variazione, riesce a restituire la sensazione di appagamento ch’era
    in mira di Yu Suzuki, lui che vuole stupire a mezzo effetti speciali e gran colore, gran
    forma di sprite orbitanti a gran velocità.  
    L’effetto scaling funziona 
	dannatamente bene. Sebbene la tecnica di ingradimento a scalare non fosse 
	del tutto nuova – 
	Splendor
    Blast di Alpha Denshi, nello stesso anno, avrebbe prodotto un ottimo simulacro del Super
    Scaler – la contorsione in velocità delle forme bidimensionali, sì che si
    percepisse netto l’avvicinamento del nemico verso la telecamera, arreca la visione del
    movimento e consegna alle strutture una corpulenza non possibile in sessione di bitmap.
    Prevale il dettaglio. Bisognava disegnare diverse versioni dello stesso sprite e poi fare
    in modo che l’artefatto dell’ingrandire fosse consequenziale, non rilevabile, cosicché
    anche in raffronto a tecniche di elaborazione tridimensionali l’aggiornamento potesse
    preservare il dettaglio in fase di zooming. In tal modo il design elementale,
    assoluto, intarsiato, tratteggiato a mano, preserva il colore e trattiene a sé la
    maestosità delle distorsioni a trenta fotogrammi per secondo. Non si ravvisa percettibile
    il decremento del frame rate, anche con più di dieci nemici simultaneamente a display,
    e non rallenta pressoché mai, lo scrolling dei vettori. Il suono persiste epico. Hiroshi
    Kawaguchi istiga l’udito traversando l’estesa capacità di sintesi del processore Yamaha a
    4MHz e sancisce il brano di trasmigrazione, il tema portante che vale l’interagire, che
    decide lo strato dell’avventura surrealista. Space Harrier determina l’evoluzione
    complessiva delle tecniche di sviluppo del videogioco. Impensabile tornare indietro, dopo
    questo. Il settore si sarebbe allineato alle innovazioni di Sega anche si trattasse di
    realizzare racing game o simulazioni sportive. Poche storie: la base di partenza
    del videogioco a scorrimento frontale doveva essere la super tecnologia, il visus 
	che a primo contatto potesse esercitare il clamore della stupefazione. 
  
  
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