 È 
illegale sostenere che questo non è un film di Yoshiaki Kawajiri. Si dovrà nel 
merito indire una conferenza stampa di rettifica e dire che le rivendicazioni 
sul film siano quantomeno da riassegnare, pur malgradoché ai titoli di testa 
sovvenga sovraimpressa la scritta “regia di Taro Rin”, refuso di traduzione per 
dentro. Urge restituire giustizia al peso del ruolo trainante, che ne La spada dei Kamui 
è del “keyframer” Kawajiri, non ci sono dubbi, l’anime 
intero si riduce al modello archetipale del suo ego a veder questi incidere (recidere) 
assai oltre la 
metà dei centoventi e rotti minuti di acrobazia, e di sensazione di vertigine 
costante, e ancora di cascate di cristalli disco music generati per mezzo d’iniettura 
quando le spade non volendo incrociassero, sconquassando il perimetro dei corpi 
e degli scorci bidimensionali; se dal film di Rintaro agisci per paradosso in 
resezione della parete coreografica 
pluriangolare acidissima vai anche a distrarlo da questa sua elasticità di 
stiratura di arti e tronchi sinuosi che ristagnano nel sentiero della 
pittografia, da cui il design stiliforme di un Moribi Murano – venuto ahinoi a 
mancare nel 2011 – particolarmente fisso sui risvolti dei volti volitivi, e 
di questi profili ravvicinati deputati di riflettere la truculenza a oltranza 
sul vitreo superficiale degli occhi. Non lo vedi mai transigere, La spada dei 
Kamui. Colleziona croci con fare democratico, da che l'acciaio non usa attuare distinzione tra 
il bene e il male.
È 
illegale sostenere che questo non è un film di Yoshiaki Kawajiri. Si dovrà nel 
merito indire una conferenza stampa di rettifica e dire che le rivendicazioni 
sul film siano quantomeno da riassegnare, pur malgradoché ai titoli di testa 
sovvenga sovraimpressa la scritta “regia di Taro Rin”, refuso di traduzione per 
dentro. Urge restituire giustizia al peso del ruolo trainante, che ne La spada dei Kamui 
è del “keyframer” Kawajiri, non ci sono dubbi, l’anime 
intero si riduce al modello archetipale del suo ego a veder questi incidere (recidere) 
assai oltre la 
metà dei centoventi e rotti minuti di acrobazia, e di sensazione di vertigine 
costante, e ancora di cascate di cristalli disco music generati per mezzo d’iniettura 
quando le spade non volendo incrociassero, sconquassando il perimetro dei corpi 
e degli scorci bidimensionali; se dal film di Rintaro agisci per paradosso in 
resezione della parete coreografica 
pluriangolare acidissima vai anche a distrarlo da questa sua elasticità di 
stiratura di arti e tronchi sinuosi che ristagnano nel sentiero della 
pittografia, da cui il design stiliforme di un Moribi Murano – venuto ahinoi a 
mancare nel 2011 – particolarmente fisso sui risvolti dei volti volitivi, e 
di questi profili ravvicinati deputati di riflettere la truculenza a oltranza 
sul vitreo superficiale degli occhi. Non lo vedi mai transigere, La spada dei 
Kamui. Colleziona croci con fare democratico, da che l'acciaio non usa attuare distinzione tra 
il bene e il male.
La cinepresa mobile intende scostare 
l’acustica-stereotipo dei ceppi Tokugawa del XIX secolo, e per dire si ricorre a 
un revival del sound tipicamente anni ’70, nella chitarra 
elettrificante lo scolo delle sequenze principali per acclamazione degli dei del 
rock; al che, osservi materializzarsi a levante un mischiamento di azione psicotropa e 
uccisione marziale, amputazioni, vendette, tradimenti e colpi di teatro neanche 
se nel premiato western medievale in cui Toshiro Mifune porta due spade e infilza 
tutti, compreso il regista, e ma dobbiamo rendere grazie a Ryudo Uzaki & Eitetsu 
Hayashi, di nuovo, che si meritano di essere nominati, si sono inventati 
circostanze sonore con variazioni chimiche di pianoforte e cose di tamburi e vocalismi, legni, 
utensili 
che percuotono altri utensili per farli scoccare come gli strumenti tradizionali 
giapponesi di cui viene tramandata l’arte nei dintorni di Shirakawa-go e in 
similari atolli dimenticati dal tempo. Lo screenplay, composito, di 
barbarie rifinito acuisce il senso del dramma dovuto alle apparizioni-lampo 
degli assassini-ninja e ai monaci che sbucano da dietro gli alberi di ciliegio, 
ed è un continuo tramare, ordire di congiure famigliari patricide che graveranno 
dall’infanzia all’età che definisce “la strada del guerriero”, che per essere 
tale deve davvero lasciarsi alle spalle i cadaveri delle persone più prossime. 
Il guerriero, forgiato dal monaco con l’inganno, dovrà al monaco la sua forza. 
Che il guerriero gli restituirà a fil di lama.
Ancorché Rintaro sovrintenda lucidamente alle 
implicazioni del suo mestiere, non essendovi di che rimostrare circa l’affezione 
con cui il regista riunisce in voce unisona un elaboratissimo contingente di 
elementi descrittivi e visuali, La spada dei Kamui accusa prolissità nel cercare 
di coincidere letteralmente i resoconti di Tetsu Yano, anche a costo di 
compromettere il criterio cinematografico cui ci si atterrebbe per non arrancare 
nel didascalico, cosa che varcate le frontiere giapponesi tende di frequente ad 
accadere, allorché si attraccano le Americhe dei nativi e s’incomincia un 
ampolloso percorso itinerante di omaggi al romanzo picaresco – il protagonista 
Jin avrà modo di incrociare nientemeno che Mark Twain – come al cinema di Fred 
Zinnemann, nella riscrittura all’arma bianca di “Mezzogiorno di fuoco”; viene 
ordinato un ulteriore rullo di pellicola lì dove bisognava più realisticamente 
mettersi a tagliare, a snellire un montaggio che almeno fino alle mirabolanti diatribe 
del Giappone in costume era accaduto conforme a una linea di ripresa di sobrio 
ascendimento del kenjutsu... e di Kawajiri, in ragione dello strascico 
iconografico/marziale, e quindi carnale, che dobbiamo nuovamente attribuirgli in 
quanto inimitabile e discernibile marchio. La spada dei Kamui professa il suo 
mantra dietro l’onere della ostentazione, ma tra i suoi acuti creativi 
statuisce uno spaccato d’imponenza umanistica manifesta, pure rispetto al 
veicolo di trasmissione che può essere l’home video. Sebbene si debba sempre 
parlare di cinema, quel feudo inaccessibile dove si fabbricano i 
sogni.
	 
 
	