In 
quei tempi lontani si beveva ancora il latte, e la genitrice ci inveiva contro 
perché si tornava a casa con i pantaloni strappati e le ginocchia peste, 
figurarsi dunque se si sapesse cosa fossero Capcom o lo Z80; eppure già allora 
si praticava con ardore il culto del salto e dello sparo, dell’annientar mostri, 
o del fuggir da essi. L’altare sul quale si metteva in atto codesta fede era il 
C64, ed il dio, il feticcio, era Ghosts’n Goblins. Era inevitabile per noi 
	infanti venir rapiti da tal concentrato di topoi avventurosi/orrorifici: il 
	cavaliere in armatura che poi resta nudo a combattere era l’alter ego per 
	eccellenza, e pur privo di lineamenti sul nostro home computer, aveva la 
	folta barba rossa a infonder carisma; le lapidi, gli alberi spogli, le torri 
	azzurrine da cui uscivano i demonietti rendevano una tangibile inquietudine 
	ai nostri giovani occhi, gli zombi, i corvacci, quei maledetti demoni rossi 
	che ti vengono addosso, gli orchi di ghiaccio e il resto del bestiario 
	sprizzavano malvagità da tutti i pixel, e poi vi era l’infingarda fiaccola, 
	forse l’arma più diabolicamente frustrante mai vista in un videogioco: sono 
	tutti simboli radicati nella memoria, parte del bagaglio culturale di 
	chiunque si trovasse in età scolare in quei medi ’80 del secolo scorso, 
	dunque piuttosto che dilungarsi ulteriormente sui singoli dettagli del 
	titolo in questione preferiremo rimembrare cosa significava giocare allora a
	ghosteggobbli, 
	e provare a dire cosa resta oggi di quell’esperienza.
	Dunque si è detto che il 
	primo approccio con il classico fu sulla macchina Commodore. Conversione a 
	cura di Elite, nella persona di Chris Butler. Artigiani con le palle i 
	nostri, in quegli anni convertivano vagonate di titoli, pesi massimi come 
	Bomb Jack, 1942, Ikari Warriors,
	Buggy Boy, 
	cercando di rendere il feeling da sala al meglio delle modeste possibilità 
	dell’hardware a disposizione. Certo, i colori erano pochi e i pixel grossi, 
	ma visto che non ci era allora permesso, tapini noi, di varcar le soglie di 
	quelle fucine di criminalità spicciola che erano le sale giochi, non era 
	ancora il tempo dei confronti con l’arcade; e ad ogni modo quel che qui va 
	detto, e che i bimbi ciccioni con lo snes oggi come allora con tutta 
	probabilità stenteranno a comprendere, è che quelle grafiche che potevano 
	non dire nulla erano per noi tessere di un disegno di cantori e dei che 
	dicevano tutto, nella squadratura degli sprite a otto bit. Il gameplay 
	d’altronde era funzionante. L’elevata difficoltà frustrava certo, ma ad ogni 
	partita si avanzava un po’ di più, le lunghe sessioni pomeridiane furono 
	dolce irrinunciabile martirio, sudate fredde cariche di tensione, immani 
	incazzature, grida di felicità al superamento del ponte infuocato, storie di 
	vita così, come le partite di pallone o il mare. E poi i suoni. Allora non 
	potevamo sapere che Mark Cooksey aveva reinventato Chopin a bordate di SID 
	nel mesmerizzante tema portante, in un momento creativo degno di Wendy 
	Carlos, ma quel pezzo che da funereo diviene incalzante, inframmezzato 
	dall’agghiacciante grido del Red Arremer, è qualcosa di memorabile anche a 
	venticinque anni di distanza.
	Non molto tempo dopo ci si 
	trovò finalmente di fronte al cassone, e come si può immaginare fu grande la 
	sorpresa nell’ammirare i colori e la definizione che umiliavano il nostro 
	feticcio, nel trovare un diverso ordine dei livelli, una difficoltà ancor 
	più estrema, ma mitigata dalla presenza di un tasto dedicato al salto, così 
	che finalmente si poteva saltare davanti a una scala ed evitare la palla di 
	fuoco in barba alla pianta malvagia, scoprire addirittura un gran finale nel 
	castello, del tutto assente nella nostra versione domestica, e subir 
	l’immane tortura di dover rifare tutto una seconda volta per godere del vero 
	finale. Anche il mood era ben diverso, meno tenebroso, ché quel tripudio di 
	grafiche e suoni era improntato al divertentismo, con le musichette 
	parodistiche e i pois sulle mutande di Arthur. Eppure, si notò anche che la 
	giocabilità era quasi invariata rispetto alla nostra modesta conversione. 
	Conversione che in fondo al nostro animo si continua ad amare.
    
	
	