Ci 
sono svariati modi per parlare di Angel’s Egg. Potremmo discutere del suo 
status di anomalia rispetto all’industria dell’animazione giapponese, 
locuzione ormai equiparabile di per sé a una condanna. Fare una disamina del suo 
contesto produttivo, con un Mamoru Oshii, non ancora diventato regista di fama 
mondiale grazie a Ghost in the Shell, in preda a forti smanie autoriali dopo la 
defenestrazione dalla direzione di Urusei Yatsura per via di 
Beautiful Dreamer. 
Oppure, cercare di tracciare nel film un intreccio o almeno delle tematiche di 
fondo, approccio che Oshii stesso accoglie con un’alzata di spalle. No, noi 
cominceremmo da Andrej Tarkovskij. La giovinezza cinematografica di Oshii è 
stata spesa nelle sale d’essai di Tokyo a guardare la stagione d’oro del cinema 
europeo: Godard, Antonioni, Bergman, Fellini, e appunto il regista di Andrej 
Rublëv. I punti di contatto tra i due autori sono molteplici, dall’approccio 
meditativo alla narrazione, ai tempi cinematografici dilatati, passando per il 
lirismo scenico e le tensioni spirituali. 
Un film in particolare spicca per vicinanza 
ideologica a Angel’s Egg, e ne risulta il predecessore più immediato. Uscito nel 
1975 dopo un lungo tira e molla con le autorità sovietiche, Lo specchio è 
un’opera ermetica, non lineare e visionaria, che cerca, più che di raccontare, 
di raffigurare un luogo dell’animo, il modo in cui nel gorgo del tempo si 
diventa ciò che si è. Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine, 
direbbe T. S. Eliot; e in segno di continuità con La terra desolata, Angel’s Egg 
parte da un mondo spettrale e diroccato, in cui si aggirano un giovane soldato 
con un fucile a forma di croce, e una diafana bambina che porta con sé un enorme 
uovo, che forse contiene la possibilità di una rinascita, forse invece è vuoto. 
Da qui in poi il silenzio, il cuore della luce: Oshii opta per una 
linea il meno narrativa possibile, facendo pronunciare ai suoi personaggi 
pochissimi dialoghi – in buona parte dei ripetuti “chi sei tu?” – e rendendo gli 
accadimenti su schermo non spiegabili se non tramite esegesi. Pretenzioso, 
direbbero i maligni: a ogni modo, l’Uovo dell’Angelo ha un guscio arduo da 
scalfire, risultando per i suoi 71 minuti una visione criptica, un sogno 
guardato dall’esterno.
Il carattere onirico della pellicola è 
catalizzato dal fondamentale apporto del co-sceneggiatore e character designer, 
uno Yoshitaka Amano in stato di grazia. Per l’occasione l’illustratore dei Final 
Fantasy dà fondo al proprio talento, plasmando gli incubi dell’autore di
Jin-Roh: Uomini e lupi 
con scenari derelitti, organici, eterei. Tableaux vivants, nella migliore 
tradizione cinematografica mitteleuropea. Il respiro di Oshii e Amano soffia 
oltre le prove migliori dei loro colleghi di genere, oltre Neo-Tokyo, oltre 
Laputa, fin verso la Zona, il pianeta Solaris, e le armonie di Werckmeister.
L’immagine comunica ciò che oltrepassa il regno della parola mozzata.
Le balene, la disperazione, gli uomini vuoti, la catarsi.
Il gorgo in cui si diventa ciò che si è.
Ciò che poteva essere e ciò che è stato
Tendono a un solo fine, che è sempre presente.
L’Uovo è rotto, l’Uovo è integro: il film più sfuggente ed economicamente 
sfortunato di Oshii è probabilmente anche quello più pregno di significati, 
traguardo non da poco per un regista così spiccatamente politico e filosofico da 
risultare problematico per i suoi produttori.
Per quanto ci riguarda, il massimo storico.
      
	
	