Oddio 
la Discovery: ovvero come saturare i cromatismi e vivere poco ma felici. Già in 
Hybris dipingemmo un
    ritratto atipico di questa pazza software house, capace, con soli tre 
videogiochi, di
    lasciare un segno indelebile nella storia dell’Amiga e delle sue produzioni. Impossibile
    esimerci dall’analizzare il suo manifesto, programmatico, il loro ariete, la loro punta di
    diamante: il tonitruante Sword of Sodan che, nell’estate 
del 1988, piombò pesantemente nelle case e nei negozi di videogiochi di tutto il 
mondo facendo un frastuono assordante. La prima cosa che saltava all’occhio 
iniziando una partita era la gigantesca dimensione degli sprite e, parimenti, 
il tarantinesco livello di violenza che lo stesso titolo era in grado di 
garantire, per la gioia sempiterna di un folto gruppo di brufolosi adolescenti, 
finalmente in grado di massacrare, sgozzare e decapitare in assoluta allegria e 
spensieratezza tonnellate e tonnellate di nemici digitali. Il prezzo da pagare 
per tale monumento stava nell’autolesionismo Discovery... 
    
    Se graficamente il titolo settava nuovi parametri e lanciava l’Amiga nell’immaginario
    collettivo come la console che poteva far girare in scioltezza una grafica impensabile,
    per quanto concerne la giocabilità e la struttura si era prossimi allo zero ludico
    assoluto. Non che questo fosse un male, per carità. Anzi, Sword of Sodan, proprio grazie
    alle sue sessioni ludiche improntate alla più totale e scoraggiante ignoranza, permetteva
    ad una vasta comunità di sfogare i propri bassi istinti con modalità catartiche e
    palingenetiche. L’affetta affetta poteva essere perpetrato dal classico barbaro di turno,
    lungo un scrolling orizzontale che presentava timorosi e reverenziali nemici, i quali pur
    armati di tutto punto sapevano di avere vita breve e di andare incontro a morte atroce.
    Per altro venivano fatti a pezzi da una prosperosa amazzone che nulla aveva da invidiare
    alla famosa Maria Whittaker di barbarianesca memoria. Il potere congiunto di poppe,
    sangue e spade rappresentò per molti un atout sufficiente a elargire al negoziante di
    turno una cospicua serie di biglietti da mille ma, paradossalmente, proprio il grand
    battage intorno al gioco, che rimase stranamente di difficile reperibilità sul
    mercato nella sua forma ufficiale, diede il là alla pirateria più selvaggia, scevra dei
    freni etico-morali che portassero ad una qualsivoglia inibizione.  
    Se chiedete ad un ex amighista quale gioco ricevette per
    primo in formato “solo-disco”, nel 50% dei casi vi dirà Sword of Sodan (che
    occupava per la cronaca la bellezza di 3, dicasi tre, floppy
    palesando a tutti, Commodore in primis, la necessità di dotarsi di un lettore esterno che
    si affiancasse a quello interno alla macchina... Esaltato un po’ da tutte le riviste
    dell’epoca, Sword of Sodan sarebbe oggi sicuramente bollato come tech demo o come uno di
    quei titoli che si presentano all’E3 o al Tokyo Game Show per dire “guardate cosa
    riusciamo a fare con questo hardware”. Purtroppo sul profilo strettamente ludico il beat 
	’em
    up Discovery, pur divertente a breve termine, presentava lacune piuttosto marcate
    nella palese linearità dei combattimenti, che troppo spesso si risolvevano nello
    smanettamento più confusionario e affannoso. Forse perché l’utenza di quel periodo si
    accontentava di una full immersion iconografica (il che non era effettivamente
    poco), le riviste del settore non marcarono troppo sull’aspetto giocabilità, piegandosi a
    quello che effettivamente era uno spettacolo grafico sontuoso. Amiga nasceva allora ed il
    suo dorato e lungo percorso era appena battuto; diversa sorte invece aspettava Discovery:
    le sempiterne mani dell’oblio stavano per allungare la loro presa su un team di
    programmatori talentuoso ma di sicuro improvvisato a livello manageriale. Ma le leggende,
    spesso, nascono proprio così.

