 Superate 
le ventiquattro di un giorno da cani del 1992 poteva essere che Enrico Ghezzi mediasse 
tra di Noi e i post-deliri trasfigurazionali nipponici di fine ’80; ricorrendo al 
condizionamento mentale, quella notte ci suggeriva di mettere il 
videoregistratore in modalità long play, dacché dopo di Akira era 
in rassegna previsto Shinya Tsukamoto, per 
continuazione di questo cinema sedizioso per nozioni, classi disgregative e 
infezioni da rigetto al ferro incubate fuori orario 
approssimativamente solo per Noi, che non eravamo 
andati al cinema, seppureché Akira, nello stesso ’92, potesse quel che è vero 
arrogarsi il privilegio di una distribuzione ufficiale in cinque o sei città 
nordiche estratte a sorte. Ma a pensarci fu anche troppo, ché in Italia gli 
anime seri, sino a quel momento, dovevi al più guardarteli dietro acquisto 
di VHS interdette ai minori sul genere di 
Urotsukidōji: La 
leggenda del Chojin. Non sapevamo bene chi era   
Katsuhiro Ôtomo. Ci 
eravamo persi i numeri di Akira in formato manga, al tempo edito da Glénat, se 
non che l’impatto col film dovette consumarsi, oraché ce ne ritornano confusi 
frammenti, dentro una centrifuga di nozioni 
biblico-fantascientifiche riguardanti esperimenti su bambini psichici, oltreché 
scorrerie su motocicli forniti di sistemi computerizzati antibloccaggio per i 
freni, e per quanto il bombardamento cyberpunk ci avesse 
tramortite le viscere fino all’osso non poteva fermarsi adesso, 
l’approvvigionamento dell’accelerazione, e delle pastiglie allucinogene sfuse.
Superate 
le ventiquattro di un giorno da cani del 1992 poteva essere che Enrico Ghezzi mediasse 
tra di Noi e i post-deliri trasfigurazionali nipponici di fine ’80; ricorrendo al 
condizionamento mentale, quella notte ci suggeriva di mettere il 
videoregistratore in modalità long play, dacché dopo di Akira era 
in rassegna previsto Shinya Tsukamoto, per 
continuazione di questo cinema sedizioso per nozioni, classi disgregative e 
infezioni da rigetto al ferro incubate fuori orario 
approssimativamente solo per Noi, che non eravamo 
andati al cinema, seppureché Akira, nello stesso ’92, potesse quel che è vero 
arrogarsi il privilegio di una distribuzione ufficiale in cinque o sei città 
nordiche estratte a sorte. Ma a pensarci fu anche troppo, ché in Italia gli 
anime seri, sino a quel momento, dovevi al più guardarteli dietro acquisto 
di VHS interdette ai minori sul genere di 
Urotsukidōji: La 
leggenda del Chojin. Non sapevamo bene chi era   
Katsuhiro Ôtomo. Ci 
eravamo persi i numeri di Akira in formato manga, al tempo edito da Glénat, se 
non che l’impatto col film dovette consumarsi, oraché ce ne ritornano confusi 
frammenti, dentro una centrifuga di nozioni 
biblico-fantascientifiche riguardanti esperimenti su bambini psichici, oltreché 
scorrerie su motocicli forniti di sistemi computerizzati antibloccaggio per i 
freni, e per quanto il bombardamento cyberpunk ci avesse 
tramortite le viscere fino all’osso non poteva fermarsi adesso, 
l’approvvigionamento dell’accelerazione, e delle pastiglie allucinogene sfuse.
Si elegge, Ôtomo, divulgatore di catastrofismi di 
notevole annata. Le parapsicologiche approssimature di cui si era reso complice in Harmagedon: La guerra contro 
	Genma (diretto da Rintaro, voto 4) sono un meccanismo caduto in disuso, e sì 
che l’effusione di queste sue nozioni di ante-scienza non compromette 
l’apparato visuale, incassate d’anticipo le figure umanoidi del vigente 
	manga, e se non che Akira si dimostra capace di approfondire sulle diversioni più 
	oniriche del soggetto, presupponendo che lo spettatore ne venga 
	coinvolto entro il dilemma del conflitto nucleare inevitabile, che accadrà 
	dall’interno, niente russie che si armano contro il capitalismo ma giusto 
	appena la macchina dell’evoluzione del gene che si manifesta sotto 
	evanescente succedimento del suo marker, autodistruttivo per discendenza, 
	visione mostruosa, piaga consacrabile all’inglobamento di ciascun sistema 
	vivente e non vivente aldilà della bolla 
	di antimateria, nell’istante in cui si venisse richiamati al neutrale stadio 
	di amebe unicellulari, loro che non hanno timore del “soggetto Akira”, lui 
	che «verrà per salvarci tutti», nonché per sterminarci tutti. La mano (il 
	braccio sintetico) del regista inclina multiangolare sullo slipstream 
	serratissimo delle scie luminose che la moto di Kaneda dissemina a 
	generatore di persistenza, e si potrebbe venire abbagliati dalle 
	micro-premonizioni di questo imminente futuro d’irreversibilità 
	collettivo-spiritualista primaché in termini di traduzione in suono 
	reminiscente, seppure nessuno al di fuori di Geinoh Yamashirogumi potesse 
	meglio transumare l’apocalisse delle multipercussioni, ossessione di voci 
	sovrapposte, frammenti elettronici che dissolvono assieme alle super cavie 
	sintomo di prenascita, monito per l’umanità.
Più influente che rivoluzionario, che la 
rivoluzione dell’animazione giapponese, posto di volersene assumere i 
motivi “esterioristici”, dice di avere ottenuto luogo nel 1987 coi 
nullaosta di Yoshiaki Kawajiri (La città delle bestie 
incantatrici) e Hiroyuki Yamaga (Le ali di Honnêamise, 
ma si potrebbe altresì retrocedere all’81 e aprire una disputa sul suo 
Daicon 
III), Akira è l’ipertrofia di certi ottanteschi flussi di denaro solvente, 
stanziabili con tanto di firma d’avallo come strumento di contrasto all’industria 
della Disney, sicché non dovessero esservi limiti da 
dover aggirare ma piuttosto risorse a cui attingere, e in modo incondizionato, per 
la committee di animatori, illustratori, fumettisti, sceneggiatori, 
saltimbanchi reclutati da ogni angolo del Giappone al fine di ridefinire il 
singolo standard precedentemente notificato alle frontiere dell’anime 
perfino nel dipartimento della computer graphics, cui invero si 
acconsente in una innotabile attaccatura dimostrativa, datoché il gettito di fotogrammi 
surclassanti il miliardo non doveva venire interrotto, durante il passaggio 
chiave dell’incubo di Tetsuo Shima, dei giocattoli e i palazzi che si 
sgretolano, per quest’uso della luce che vattelo a spiegare, e 
che anzi ti sai spiegare nel merito di un ambiente dove se per caso il disegno ultimo non fosse 
ritornato uniforme quanto la 
superficie di uno specchio di Versailles atterrava Ôtomo, col suo rosso 
mantello, a imporne rapidissimo revisionamento, già che sembra il 
perfettibile non rientrare nei 
termini negoziali stilati a monte, trovandovisi scritto nero su bianco che 
Akira doveva essere libero degli errori addebitabili all’umanità malgrado 
i tagli sulla sceneggiatura originale, per vero opportuni vistoché il film avrebbe dovuto 
sovrintendere a una pellicola di due ore strette. Ma due ore che rimarranno. Non se 
ne andranno via le immagini frastornanti e opprimenti di Neo-Tokyo, epicentro 
biologico di una nuova stirpe di superuòmini.   
 
    
	
	